Virgilio Marrone, ospite del mio Salotto, narra di un recupero ad opera della memoria: non semplici ricordi ma sensazioni, pezzi di vita, emozioni vere ritrovate in uno spazio fuori dal tempo, nei giorni della pandemia più dura. Chiuso in casa, il protagonista trova una via di fuga andando a spasso con Alice indietro nel tempo: un viaggio tutto da leggere.

A passeggio con Alice

Fu quella volta in cui il lockdown sconsigliava di uscire di casa che presi a vagare per la casa. C’era quiete e silenzio, insoliti a quell’ora, che suscitarono quasi un senso di gratitudine nei riguardi dell’epidemia. Arrivato davanti al ripostiglio, mi fermai. Entrai e cominciai a scartabellare fra carte, valigie, vecchi libri. Mi ricordai di una valigia che avevo sepolto sotto libri e documenti vari,  l’avevo chiamata la valigia dei ricordi. La presi, l’aprii e cominciai a scartabellare fra le carte che vi erano contenute. Mi trovai fra le mani un quaderno dalla copertina nera, come usava negli anni Cinquanta, che aveva una etichetta bianca sulla quale era scritto il mio nome. Sulla prima pagina c’era scritto, al centro, a caratteri cubitali: appunti.
Era un quaderno a righi; tra una pagina bianca, un’altra strapazzata da improbabili disegni e altre scarabocchiate in classe durante le lezioni, mi fermai su una delle ultime che aveva l’inizio di una lettera.
Scartabellando nella memoria, mi ricordai che era una bozza di lettera iniziata, non ricordo se mesi o anni dopo l’ultimo anno di scuola. Iniziava, ritualmente, “Cara Alice…”.
Alice: una compagna di classe della scuola superiore.
Erano poche frasi, non c’era una data. Nella quiete mi si scatenò la memoria, in particolare, il ricordo di una delle passeggiate che facevo con Alice, all’uscita da scuola il sabato, a volte anche in altri giorni. Mi venne in mente una frase trovata non ricordo in quale libro: i ricordi sono come tavole, ci si galleggia sopra.
E cominciai a galleggiare.

Erano gli anni in cui l’Italia si stava liberando dalla fame causata dalla guerra e cominciava ad  avere paura dell’appetito: era arrivato il boom economico e c’era già chi aveva preso a porsi il problema della dieta. L’atmosfera culturale tra i giovani come Alice e me, studenti impegnati a leggere solo qualche pagina assegnata dagli insegnanti, e non sempre per intero, era pervasa dalle canzoni che la radio, i dischi e i jukebox trasmettevano a tutte le ore del giorno. Quelle canzoni costituivano il corpus della musica cosiddetta «leggera» che dominava in quegli anni, a far intendere che Mozart, Bach… erano autori di musica pesante!
Prevaleva la canzone melodica, spesso strappalacrime, ispirata a valori corrispondenti alla triade Dio-patria-famiglia ereditata dai decenni prima della guerra. Erano canzoni “di Stato”, come qualcuno ha detto, governate dalla radiofonia pubblica (la Rai), appunto, e dalla casa discografica Cetra, che era un’azienda controllata dalla RAI e che aveva potere censorio sui testi delle canzoni, nei quali erano ricorrenti parole come lacrime, una donna prega, disperato, tristezzachiesetta,  altare
In quegli anni, però,  vi era era anche chi apprezzava – ed era influenzato –  dalle canzoni cantate da Marino Barreto jr., cantautore e contrabbassista cubano,  protagonisti  di tante estati musicali. Affascinava con la sua voce sottile caratterizzata da una alternanza di timbri e di colori; cantava con un filo di voce che, nei passaggi sussurrati, diventava rauco e da quella sua pronunzia esotica che spostava gli accenti delle parole e allungava le sillabe. Quando mi accadeva di sentirlo, ne ero anch’io affascinato.

Galleggiando galleggiando, mi giunsero alla mente anche le difficoltà che incontravo nell’interagire con le ragazze. Anche per questo v’era una canzone che le rispecchiava bene. Quando alle mie orecchie arrivavano la melodia e le parole:

La mia donna si chiama desiderio
desiderio d’una donna che non ho,
che m’appare come in un delirio
e scompare sussurrando “no”.
La mia donna si chiama desiderio
e m’aspetta al crocevia dell’irrealtà.
Ogni notte è sempre là, nell’oscurità,
poi con l’alba se ne va.

solidarizzavo con il cantante e con gli autori, dei quali ignoravo, e ancora ignoro, i nomi.

Alice, sì, fu compagna di classe degli ultimi anni di scuola superiore.
Leggere il suo nome in quella bozza di lettera mi fece tornare il desiderio di contattarla. I ricordi e la quiete mi spinsero a completare il testo, mentalmente.

Ciao Alice, ricordi? Accadeva che, all’uscita da scuola, facevamo il percorso verso casa insieme. Ricordo però in particolare un sabato, era maggio, come tante altre volte, facemmo il percorso verso casa insieme. Sabato, il giorno più bello della settimana con la sua prospettiva della domenica e del tempo libero da compiti; dava la sensazione di potersi buttare alle spalle le vicende della settimana e di guardare alla prospettiva della sera e del giorno successivo; stimolava il desiderio di parlare di tutto ciò che non fosse scuola.
Ho di te, del tuo fisico un ricordo vivo: i capelli, ricci e rossi, pettinati a formare una corona che ti circondava il volto; le labbra sottili che coprivano i denti di grande bianchezza; le orecchie – le anticamere dell’anima, ha detto non ricordo chi – erano piccole e aderenti alla testa. Le gambe lievemente arcuate e il busto completavano le caratteristiche fisiche di una adolescente, in realtà ormai in formato di donna.
Ricordi la frase di Sartre che una volta ti citai? M’era capitata sotto gli occhi scorrendo alcuni righi di un libro di mio fratello: la donna “un prodotto intermedio tra il maschio e il castrato”. Fosti d’accordo con me che non era una definizione accettabile, per non dire offensiva, e che avrei fatto meglio a non dirla.
Alice, il tuo nome… nei primi tempi della nostra amicizia mi faceva pensare al pesce azzurro, di solito difficile da distinguere dall’acciuga, quel pesce che si conserva intero sotto sale: una interpretazione, mi rendo conto – ma allora no, non avrei saputo darne ragione – che non posso che definire sciocca. Credo, però, di non aver mai esplicitato questa mia incertezza nelle nostre conversazioni.
Il maglione beige che ti copriva dal collo al bacino e la gonna lunga fin sotto il ginocchio non impedivano di intuire le forme del tuo corpo.
Sì, ammetto che ti trovavo non bella, ma attraente. Il tuo eloquio e il modo di rapportarti agli altri mettevano in evidenza la concretezza di una ragazza – una donna – che sapeva cosa fare e cosa dire nelle varie circostanze: sapevi divertirti, sapevi ballare – e ballavi bene – e a scuola ottenevi risultati che ti facevano apprezzare dai professori, da me e da tanti compagni.
Tutte queste caratteristiche ti davano un’aria di normalità che invidiavo e rendevano impacciato il mio rapportarmi a te. Sentimento non bello, quello dell’invidia, che alcuni considerano come una malattia, la cui unica medicina è una buona dose di ironia e di autocritica; il problema è che non si sa se, né dove, sia la farmacia che la vende.
Quella tua normalità faceva a pugni con il mio modo di essere, con la mia personalità. A partire dal nome: Ermenegildo
– Che nome insolito!
esclamasti quando te lo dissi.
Spiegai: – È un nome composto da ermen – secondo gli eruditi, significa “grande”, “potente”, “completo” – e gild – che vorrebbe dire “che vale”, “che ha consistenza”.

Sorridesti a quella mia spiegazione, probabilmente anche tu convinta che non vi era significativa corrispondenza con la mia personalità. Probabilmente apprezzavi quella autoironia. Da sempre, però, a mia memoria, in casa e fuori, alcuni mi chiamavano – e mi chiamano – Gildo. Altri mi chiamavano, e ancora mi chiamano, Menegildo, e altri ancora, più ironici, se non sarcastici, con qualche irritazione da parte mia, mi chiamavano – e mi chiamano – Mena, con il significato di sbrigati, muoviti,  fai presto. Una sollecitazione perfettamente coerente con il mio modo di essere, di vivere e di capire le cose, come anche tu qualche volta mi sollecitavi a fare.
Qualche conoscente mi ha talvolta chiamato Erme, altro diminutivo a me sgradito, inizialmente perché non ne capivo il significato. Sgradimento che fu confermato e accentuato quando scoprii che, nell’antica Grecia, con quel nome venivano indicate  piccole colonne collocate lungo le strade, ai crocevia e ai confini delle proprietà. Credo non faccia piacere a nessuno essere assimilato a delle colonne, non ti sembra? Sono convinto che sei d’accordo con me. Tu, senza sollecitazione da parte mia, prendesti subito a chiamarmi Gildo; talvolta, però, con intento scherzoso, mi pareva, mi chiamavi Mena.
Io appartenevo, e appartengo, alla generazione degli uomini nei cui riguardi il femminismo ha espresso le sentenze più pesanti, mentre gli esempi prevalenti nella società, i modelli introiettati dalla vita quotidiana erano di segno totalmente opposto. Non so che atteggiamenti hai avuto tu nei riguardi del femminismo, mi piacerebbe poterne parlare con te, capire se e in che misura ha scalfito quella che a me è sempre sembrata la tua “normalità”. Se dovesse accadere di incontrarci potremmo parlarne, che dici?

Ricordi quel sabato? Era una splendida giornata, tutta sole e aria frizzante. Fui io a proporre di allungare il percorso sino al lungomare, invece che dirigerci subito verso il grande parco, che segnava il limite della nostra passeggiata. Ero stato attratto dall’aria salmastra che arrivava dal mare. Dicesti subito di sì, con evidente piacere, mi sembrò.
Vedo te e me percorrere la via centrale della città commentando quel che era accaduto a scuola, quel sabato soffermandoci più a lungo sull’ora di religione. Parlavamo… quel sabato io parlavo più di te; fra un silenzio e l’altro inserivi espressioni di consenso su quel che andavo dicendo:
– Sì, hai ragione –
– Sono d’accordo… –
-È vero… –
Apprezzai molto quel tuo consenso, non essendo io abituato alla concordia dei miei interlocutori, parenti, amici…
Ero un po’ più alto di te, di solito un po’ impacciato, come ho già accennato, con te e, in generale, con le ragazze, soprattutto quelle per le quali provavo attrazione o che vedevo belle, intelligenti, sveglie: mi creavano grande imbarazzo. Avevo, come dire, incertezze nel rapportarmi a loro, come a tratti mi accadeva con te.
Avevo fatto qualche tentativo – molto timido, in verità – di approccio alle ragazze, ma senza successo. Più avanti negli anni, sulla base di qualche esperienza, trassi la conclusione che non dovevo avere aspettative, imparai che dovevo aspettare che fosse la ragazza – la donna – se interessata, ad assumere l’iniziativa. Ho poi anche scoperto che è da sempre che succede così. Per dirne una: nel rapporto fra Giulietta e Romeo, i due giovani protagonisti del dramma di William Shakespeare, è lei che dà le indicazioni a Romeo su come, dove e quando incontrarsi la prima volta.
Mi ricordai anche di una esperienza vissuta in quegli anni. Fu un episodio che mi disturbò molto. Avvenne una sera in cui con alcuni compagni partecipai ad una festa da ballo, quelle che si tenevano in casa o, in estate, su terrazze condominiali.
Avvenne, appunto, su di una terrazza. Avevo trascorso parte della serata guardando le coppie che ballavano, colpito – e invidioso? – dalla semplicità, direi dall’automatismo, con cui i maschi manifestavano, e le ragazze accoglievano, l’invito a ballare. La mia attenzione fu attratta da una ragazza seduta poco lontano: indossava un abito non elegante, ma garbato; al mio sguardo era dotata di grazia e signorilità. Fui anche sollecitato da un amico, forse più impacciato di me: come avevo visto fare da tanti maschi, mi avvicinai per invitarla a ballare. Quando fui a opportuna distanza, accennai un inchino e, sibilando un
Vuol ballare? –
allungai la mano destra per accogliere quella che lei mi avrebbe teso.
La ragazza non si mosse, né vi fu alcun cenno in tutto il suo corpo. Solo dalle labbra, appena schiuse, filtrò un monosillabo:
– No –
Sul suo volto c’era una espressione di durezza che, unita al monosillabo, fu una stilettata che attraversò da una parte all’altra il mio petto.
Non potei far altro che voltarmi e tornare alla mia parete, senza riuscire a darmi ragione di quella risposta. Avrebbe dovuto essere lei a invitarmi, come poi talvolta è accaduto in altre occasioni?
Quel sabato di maggio percorremmo il lungomare fino a raggiungerne la parte finale, godendo dell’aria salmastra che il mare vi diffondeva.
Per un po’ anche tu tacesti. Immersa come ti vedevo nei tuoi pensieri, ero convinto che anche tu eri ammirata dallo spettacolo naturale che avevamo davanti agli occhi. Pensavi… ricordavi… cosa?
Poi prendesti a parlare. Mi raccontasti qualche episodio della tua vita con pause insolitamente lunghe, tra un episodio e l’altro, come in attesa di qualche reazione da parte mia. Quei racconti mi fecero pensare, e ancora mi fanno pensare, alla “normalità” della tua vita.
Per favore non chiedermi di spiegare cosa intendo per “normalità”. Tuttavia, per evitare che – se fosse possibile – tu me lo chieda, mi correggo, penso che sarebbe stato meglio sostituire la parola “normalità” con “serenità”. Il tuo modo di raccontare, le vicende che raccontavi e i rapporti con gli altri che ne scaturivano mi facevano pensare ad una serenità, appunto, che era agli antipodi dei miei turbamenti. Nella tua narrazione tutto risultava facilmente e tranquillamente non solo realizzabile ma, in gran parte, anche realizzato.
Io ti raccontai una specie di storiella che mi aveva raccontato qualche tempo prima mio padre. Prima che cominciassi a parlare proponesti:
– Prendiamo un gelato? –
– Ma fa ancora piuttosto freddo. –
E aggiunsi subito:
– Però, mi piace l’idea di un gelato in stagione non estiva. Sì, volentieri. –
Mentre il mare sciacquava, presi a dirti quel che mi aveva raccontato mio padre:
– L ‘onda chiese al mare : « Mi ami? » Ed il mare le rispose: «Il mio amore è così forte che ogni volta che ti allontani verso la terra io ti tiro indietro per riprenderti tra le mie braccia. Senza te, la mia vita sarebbe insignificante. Sarei un mare piatto, senza emozione. Tu sei l ‘essenza del mio esistere.»  L’ onda fu felice tra le braccia del mare, facendo finta ogni volta di volare via, per dare quel senso di precarietà alle cose, per renderle preziose. Ed ogni volta il mare la riprendeva, con le sue braccia grandi, per riportarla a sé. –
– Bella questa storia! –
fu la tua reazione.
All’ultimo morso che desti al gelato guardasti l’orologio e:
– Torniamo? –
proponesti.
– Sì. –
fu la mia risposta immediata.
Riprendemmo a camminare, in senso inverso.
Per combattere il silenzio che mi attanagliava, mi venne di chiederti:
– Tu che fai nel tempo libero? –
senza rendermi conto delle implicazioni di quella domanda.
– Vuoi dire il pomeriggio, la sera? –
– Sì, insomma quando non vieni a scuola, non hai compiti da fare… –
– Mah, dipende. Faccio qualche servizio in casa. Ho un fratello al quale, essendo maschio, non viene mai chiesto di fare alcunché in casa, e lui se ne sta nella sua stanza a fare i fatti suoi. Qualche volta leggo, ma la prima operazione, dopo i servizi, è fare i compiti. –
Ci fu una breve pausa, poi mi chiedesti:
– E tu? –
– Di solito, mi annoio. Quando non riesco più a sopportare la noia, provo a fare i compiti. –
– Normale sarebbe il contrario, ci si annoia a fare i compiti e, magari, per un po’ si sta senza far niente. –
fu la tua replica.
Facesti una pausa e mi chiedesti:
– A cosa stai pensando? –
Non risposi, non sapevo cosa dire.
Continuammo a camminare.
Non c’era molto traffico.
Eravamo arrivati nei pressi del grande parco, che segnava il traguardo della nostra passeggiata.
Mi chiedesti:
Mi vuoi dirmi qualcosa?
Stupito dalla domanda, del tutto inattesa, e dai due “mi” che avevi utilizzato, cercai una reazione possibile, ma non la trovai.
Aggiungesti:
– Se hai da dirmi qualcosa… –
Basito, riuscii a profferire una sola parola:
– No –
e ricordo la mia testa che oscillava per dire che no, non avevo alcunché da dire, non rendendomi conto del significato della tua domanda, né dell’incomprensibilità della mia risposta.

Eravamo arrivati a destinazione: il parco stava per dividerci.
Mi salutasti con uno sguardo e un movimento delle labbra che adesso, nonostante i tanti anni passati, ricordo come segni di rimprovero, soffusi di delusione…
O era altro?
Rimasto solo, presi a riflettere sulla domanda e sulla mia mezza risposta:
‘Ma lei voleva… come dire… forse voleva incoraggiarmi a dire… a dichiarare…’
Non so dire, dopo tanti anni, se avevo l’intenzione, se l’avevo avuta, se ci avevo pensato… ma al fondo, il “No” appena sussurrato e il movimento della testa di conferma, si basavano; sulle mie incertezze e, allo stesso tempo,  sulla certezza che avevo sempre avuto che lei non aveva alcun interesse nei miei riguardi al di là della colleganza scolastica.
Pensieri incerti, di perplessità…
Finii col pensare:
‘Ma, io, cosa voglio?’
E mi diedi la risposta:
‘Non so cosa voglio, né so come averlo, questo è il mio assillo’
Ritornai sul lungomare.
Non ci furono altri sabato di maggio, né di altro mese; quella splendida mattina di sole fu l’ultima in cui ci accompagnammo all’uscita dalla scuola.
Dopo quel sabato, la nostra amicizia era evidenziata da quel neutro
– Ciao –
che ci scambiavamo quando ci incrociavamo a scuola.

Mi resi conto quel giorno, nel silenzio del lockdown che ero, in un certo senso mi sentivo, in quegli anni, soddisfatto;  per dir meglio, passabilmente soddisfatto, soprattutto quando ero solo. Non misantropia, ma timore di dover dare spiegazioni.

Questo sarebbe stato il testo della lettera, se l’avessi scritto.
Rimase tutto nella mia mente.
Non sarebbe servito scriverla,
Avrei potuto scrivere solo il nome della destinataria.
Non avevo il suo indirizzo.
E non era nemmeno su facebook, né altro social.
Non sapevo dove recapitarla.

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