Questo racconto che ho vissuto in prima persona voglio condividerlo con voi. Molti credono che una semplice pianta sia poco più che un oggetto, ma in realtà è un essere che vive, si difende e ha istinti che si realizzano nel suo mondo. Per empatia si può venirne a contatto ma ci vogliono tempo, pazienza, sensibilità e tanta attenzione. Nel periodo estivo, ogni anno per ben quattro mesi, abitavo a Capriglia, un paesino abbarbicato sulle colline della mia Versilia, proprio sopra Pietrasanta. Da lì ammiravo il mare e, nelle giornate terse, vedevo il mondo: la Capraia, la Corsica, l’Elba, la Gorgona, persino a volte le coste francesi e, più vicine, quelle liguri come l’isola della Palmaria, il Tino, il promontorio di Porto Venere. Che spettacolo!
La mia casa col giardino che avevo comprato era una terrazza sulla Versilia: la sera quando si accendevano le luci, sembrava un mare di stelle giù nella pianura.
Nel giardino di casa, vicinissimo alla porta d’ingresso, spiccava alto un ciliegio adulto, grande e rigoglioso. Mi pareva un privilegio abitare vicino a lui, era pieno di ciliegie e mi donava un’ombra abbondante.
I rami guardavano il cielo e assorbivano i caldi raggi del sole. Chiesi subito al mio vicino di casa, Elio, se mi raccontava la storia del ciliegio. Elio era un uomo di 65 anni e sapeva tutto del paese. I piccoli paesi sono come famiglie allargate in cui tutti sanno i fatti di tutti.
Mi disse che il ciliegio l’aveva sempre visto da quando era nato, e, anche allora, l’albero era già grande e alto. A quei tempi non c’erano confini e i giardini venivano condivisi, come le ciliegie.
A calcoli fatti, il ciliegio doveva avere sui cento anni. Mi meravigliai, non pensavo che un ciliegio potesse vivere tanto a lungo. Nello stesso tempo ebbi paura pensando che presto sarebbe morto. Abitando al paese, fra me e l’albero si stabilì una confidenza e iniziai a parlargli.
Capivo che eri vecchio perché avevi tutti i rami coperti da quei funghi bianchi che, come il bianco dei capelli dell’uomo, ti davano un segnale di vissuto.
Nonostante tutto eri forte, orgoglioso e non cedevi il passo al tuo tempo oneroso, eri vecchiotto ma ardito come un giovanotto. Fra me e te ci fu subito, non parlo di amore né di bene, quella è roba da umani, parlo dell’empatia reciproca.
Qualcuno ci può credere, altri no, ma noi comunicavamo a nostro modo. Le persone di te vedevano solo le tue ciliegie rosso scure come il sangue, dolcissime, senza vermi che, non raccolte, si mummificavano sulla pianta al caldo del sole.
Uccelli, merli, calabroni facevano man bassa dei tuoi frutti. Le ciliegie erano tante ma troppo alte; dovevo sempre chiamare il Papini o Ennio che me le raccogliessero. Loro sapevano arrampicarsi come scoiattoli.
Ricordo che la mattina andavo al mare, ma il pomeriggio stavo sotto i tuoi rami, a scrivere, meditare, leggere. Riflettevo ad alta voce e tu chissà cosa capivi.
Ricordo che allora ero in cerca della pietra filosofale, sondavo i limiti dell’Universo e avevo un entusiasmo spaventoso. I miei occhi sgranati cercavano di spalancarsi per sondare i limiti del mistero. Pensavo che tu mi capivi quando, dimenticandomi del mio corpo, quando i pensieri svanivano, quando perdevo il senso della forma e mi espandevo intorno. Che meravigliosa sensazione di bellezza e di amore. In quei momenti tu mi sentivi, ne ero certa.
Ho imparato col tempo a conoscerti, quando ti toccavo eri flessibile, se lo faceva un altro, se ti troncava anche piccoli rami, divenivi subito rigido, avevi paura.
Ricordo che un giorno permisi a un mio amico di raccogliere le tue ciliegie. Salito sulla scala, non ne raccolse una a una, ma troncava i rametti colmi di frutti. Lo sollecitai a non farlo, ma lui per risposta mi disse: “qui sulla scala si sta scomodi, così faccio prima.”
Finalmente finì la raccolta, mi avvicinai a un ramo: era rigido, non flessibile. Capii così che eri contrariato e temevi che qualcuno ti facesse del male.
Questo fenomeno di cui parlo non è una stupidaggine, chi ha esperienza con gli alberi e li ama, sa che è così. Anche noi uomini, se proviamo paura ci irrigidiamo.
Penso agli alberi di città imprigionati costantemente da smog, rumori, traffico, non devono essere molto sensibili, ma nevrotici perdendo il loro istinto naturale. Rispetto questo poveri alberi che ripuliscono l’aria dallo smog per farci respirare meglio.
Ricordo che ti ripetevo costantemente di abbassare i tuoi rami e di fare più frutti in basso.
Rammento che prendevo un tuo ramo, lo tiravo verso terra per spiegarti che dovevi incurvarti in giù per farmi prendere le ciliegie. Quando guardavo il tuo tronco e quei funghi bianchi attaccati ai tuoi rami, non mi piacevano. Lo dissi a Enrico, la mia dolce metà, e lui che fece? Con pazienza certosina, arrampicato sulla scala, armato di lima, grattò via dai tuoi rami più bassi tutto quel bianco. Ci vollero tanti giorni per completare l’opera e, alla fine, caro ciliegio, parevi più giovane e bello. Chissà cosa hai sentito a essere grattato per giorni e giorni? Forse ti piaceva.
L’anno dopo mi hai dato la risposta, ho capito che quella pulizia alle tue membra ti era piaciuta e, per ringraziarmi, producesti una marea di ciliegie. Quell’anno ebbi la vaga sensazione che i tuoi rami fossero più bassi, perché raccolsi agevolmente le ciliegie con la scaletta non altissima. Nel raccoglierle ti ringraziavo, come si fa da creatura a creatura, per dirti che sapevo che tu esistevi, non eri un oggetto.
Un anno, appena arrivata a Capriglia, mi resi conto che, uscendo fuori casa, sfioravo con la testa il tuo ramo proteso verso la porta d’ingresso, come a dire: “eccomi, sono qui alla tua altezza.” Qualcuno penserà che ho sognato, che ho avuto le traveggole, come si dice qui nell’alta Versilia e può darsi, ognuno ha la sua realtà, ma quando il ramo mi sfiorò la testa capii tutto e ti mandai la mia onda emotiva scaturita dal cuore.
Tu e io sapevamo la verità, l’empatia era reciproca e da allora diventammo veramente amici.
Nessuno aveva notato il fenomeno, le persone razionali direbbero: “il ciliegio, invecchiando ha abbassato i rami, come per stanchezza.” Sapete, tante volte la razionalità è necessaria, ma la pazzia è ancora più necessaria per evadere dalla grotta del nostro corpo e vedere un altro mondo. Ora, caro albero, ora che è trascorso tanto tempo e hai visto passare molti anni della nostra vita, visto mio figlio Michele crescere e ammalarsi Enrico, ora penso più a lui che a te.
Le mie preoccupazioni sono rivolte a Enrico: prima il cuore, poi i reni, la dialisi e tutto il resto, non ho potuto più stare a Capriglia e ti ho abbandonato. Dopo anni e anni insieme, il nostro dialogo è finito. Ora d’estate abito al mare e raramente salgo a Capriglia, ti ho visto decadere anno dopo anno, solo, senza carezze né dialoghi. Poi i tuoi rami hanno iniziato a seccarsi, per te è cominciata la decadenza, facevo finta di non vederti, stavo male a guardarti. Ora, a distanza di anni cosa è rimasto di te? Un tronco con due rami alti alti e scarni che ancora producono ciliegie. Non sei lo stesso, bello, rigoglioso, sento tanta pena al cuore a guardarti.
La malattia di Enrico mi ha sviata da te, ma il mio cuore, anche se non voglio ammetterlo, è sempre con te.
Adesso che sto scrivendo, una lacrima mi è caduta sul foglio, ho capito che tu sei ancora nel mio cuore, anche se faccio finta che tu non esista. Scusami per averti abbandonato, non posso far niente per te. Ognuno di noi due segue il suo destino.
Ora mio figlio abita in quella casa e spero ti rispetti.
Ora devi avere sui 140 anni.
Ho preso da te le tue energie e, in cambio, ti ho dato niente o poco. Vorrei ritrovarti nei giardini dei cieli e ristabilire quel contatto interrotto, ma ancora sei vivo e ti salverò dalla sega del giardiniere.