Stefania è una ragazza torinese appena diciottenne. Ha iniziato a scrivere in tempi di pandemia, ed ora che ha trovato il suo strumento per capire la realtà – e se stessa – non lo lascia più.

Alle volte

Elena era solita riempire tutto. Riempiva scaffali di fogli, libri di segni di matita, persone di empatia e la sua testa di fissazioni. Le sue collezioni di fissazioni, tra le migliori delle capacità sue.

Qualche estate fa le mancavano pochi mesi per la maggiore età e cercava ancora di capire come non sentire un’ebbrezza smisurata se riceveva un saluto desiderato. Se le si chiedeva cosa desiderasse, “solo di avere sigarette sotto il sole di un prato” rispondeva. Io l’ho conosciuta Elena, la conosco anche ora; ma per quello che si è convinti di essere ora, non penso di conoscerla come quell’estate. Siamo cresciute e non più nella stessa città. Alle volte sento la sua voce per telefono, fa strano che ancora chiami o che mi pensi. Non le piaceva scrivere messaggi, come scrivere in generale. Quando chiamava, chiamava in me quell’estate in cui entrambe eravamo minorenni e sognavamo solo di fumare in pace.

Quell’ultima estate eravamo solite vederci spesso la mattina o la sera per Torino. Ci si scambiava tanto, tanto di soli stati d’animo. Un giorno venne dicendomi «ho trovato una scuola, riuscirò ad andarmene da Torino». Mi chiedevo se volesse realmente andarsene o se lo volesse fare solo perché sapeva che tutti l’avrebbero prima o poi lasciata per andarsene, non io però. Avevamo diversi amici in comune, ma non erano un fondo di piacere sincero, se non d’estate. Tra loro non in molti le sorridevano, io mi sforzavo. Era come se Elena rubasse i sorrisi per lasciare tutti imbambolati a voler comunque bene ad un pezzo di pane.

Il maggio di quell’estate, Marco lasciò Torino e non seppi più molto di lui. Lui era un nostro caro amico, questo mi piaceva credere. Diceva che sarebbe andato a lavorare per lo zio, nella sua azienda poco fuori Grosseto, in Toscana. Marco e Elena non si erano mai realmente frequentati, lei era però legata a lui in un modo che non saprei neanche bene spiegare. Le sorridevano i pensieri anche se non c’era e si parlava di lui. Lui sorrideva invece solo avendola davanti. Quando mi disse di volersene andare, pensai subito a Marco e solo dopo che realmente forse stava capendo cosa voleva fare della sua vita non a Torino.

L’agosto di quell’estate andammo a Massa Marittima, vicino Grosseto, “solo per il mare” come piaceva pensare a lei. Restammo nel monolocale di un amico della madre, in cui potevamo fumare solo se di nascosto.

Era grande la sensazione di vita che provammo lì. Quel mese, tra i meno trascurabili di cui ho memoria, mi è ancora impresso nella mente e ci spunta subito se solo sento parlare d’estate. Una sera un vecchio, inizialmente genuino, ci spiegò come secondo lui la violenza fosse alle volte necessaria. Matto. Pensai che anche io e lei lo fossimo, però era quella pazzia che faceva sorridere, almeno questo ci piaceva pensare.

Il sentimento che si provava era di pace e la sera era il momento migliore. La casa era molto tranquilla, vissuta e calma, alle volte un po’ come noi . Elena prendeva sonno dopo le tre e io quando lei lo perdeva. Se aprivo gli occhi la trovavo sempre a gambe incrociate sulla finestra a fumare o fissare il vuoto. Una volta, ricordo, sognai di vederla cadere. Mi svegliai quella mattina sentendola canticchiare “non vedo l’ora di andar fra i dannati per riverlarglieli tutti sbagliati”. Ascoltava spesso De Andrè, sorrideva subito se glielo si canticchiava e notai che lo faceva se non nominava Marco da un po’. Alle volte pensavo che lui fosse frutto della sua immaginazione, però l’avevo conosciuto. Notai spesso delle sue chiamate perse nel telefono di Elena, lei non rispose neanche una volta. Mi fa strano ricordarlo; per me Marco è sempre stata quella fonte di pace un po’ fraterna. Crescendo ho capito che in fondo era solo l’idealizzazione di un qualcuno più grande che teneva a noi. Elena chissà cosa idealizzava, forse era solo infatuazione; un po’ quello che si dice ad ogni adolescente invaghito. Lei idealizzava pure un mare caldo nonostante fosse mosso, eppure odiava farsi il bagno. Alle volte pensavo che il mare ricreava la sua testa, non per darle una connotazione negativa, solo perché entrambi erano così com’erano. Non si poteva cambiare la violenza o l’imperturbabilità dell’acqua. Ci si presenta tutto per com’è.

Tengo ancora tanto a lei; inevitabilmente iniziò a darmi tanto, anche senza intenzione. Avrei passato intere giornate a prometterle che sarebbe passata la sua costanza di fissazioni, d’infatuazione o di evasione. Anche quando eravamo all’apice del benessere sapevo che lei sarebbe stata per me solo un personaggio di passaggio, ma non mi dispiacque mai. Ci davamo così tanto senza capire quanta pace stessimo vivendo, e allora ci andava bene così. In quei giorni al mare era così pacata e al contempo infastidita che alle volte sarei voluta persino tornare a Torino, solo per qualche istante. Era turbamento sapere che la sua convinzione di pensieri in testa non la mollava, che continuava a nominare Marco che forse c’era e forse no, che forse un giorno sarebbe tornato. Eppure mai rispose ad una sua chiamata. Stavamo bene con quel mare un po’ sempre gelido e quel vento fastidioso che scaricava tutti gli accendini. Una sera mi disse delle frasi a cui alle volte ancora penso. Iniziò col dirmi che secondo lei, se viviamo è per gli altri invece che per noi stessi. «Penso alle volte di essere così insignificante ma se pensi a quanto svoltiamo le giornate con i nostri saluti e con la nostra misera presenza. Non lo possiamo sapere. Lo so che tu non ci pensi. Secondo me io vivo perché qualcuno racconterà di me» mi disse una mattina alla finestra. «Ele hai diciassette anni…» le risposi io. «Quindi? Tu manco credi nelle anime gemelle». «Ma cosa c’entra col vivere?». «C’entra che vedi il vivere in modo diverso» mi rispose lei. «Manco fosse un male. Vivi per me mi raccomando, grazie». «Quando racconteranno di te diranno che non credi alle anime gemelle». «Oh no! Che sventura Ele!» scherzai io. «Muta! Anche io e te siamo anime gemelle, sempre collegate». «Ele, ti prego…» l’ammutolì. «Eh mamma mia! Non devi mica solo pensare all’amore, c’è molto altro. Io e te potremmo esserlo, anime gemelle dico, lo siamo già. Se solo fossi meno rompiballe». Ci fissammo per un istante e iniziammo a ridere, poi ovviamente iniziò a parlare di Marco e di come lui non sappia amare. Però gli volevamo comunque un gran bene e non mi sforzo neanche ora di sorridere pensandoci. Ancora mi ricalcano quelle dolci parole di Elena uscite un po’ dal nulla. Lei in effetti non viveva mai per sé stessa, per me invece troppo spesso.

Scrivere di lei mi fa venire voglia di tornare su un balcone inosservato di quaranta gradi d’ombra, ognuno il suo perché. Quando mi chiama scherza sempre su quello che non tiravo mai in ballo, come la scuola, i soldi o me stessa. Mi piaceva che di lei sapessi i dettagli più di altri. Non ho più trovato persona di cui sapessi meglio gesta o meccanismi. Ridevo quando si scopriva silenziosamente per quello che era. Come quelle mattine all’alba in cui rideva di me perché non credevo alle anime gemelle o in cui silenziosamente parlava senza rendersi conto di quanta verità di sé stessa mi stava concedendo.

Alle volte è bello ritornare su quei personaggi di passaggio che di passaggio sembrano solo esserlo per istanti, come onde. Alle volte non sarei così pacata se non avessi visto il più pacato degli esseri umani diventare grande, pensandomi, senza di me.

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