Cosetta Guarnieri nasce a Firenze il 5/8/1955. Ha lavorato come dietista presso l’ospedale di Careggi di Firenze per quarantadue anni, occupandosi prevalentemente di corsi di educazione alimentare rivolti a pazienti diabetici e obesi. Attualmente in pensione si dedica a coltivare le sue passioni; pittura a olio, acrilico, matita, e scrittura creativa per la quale ha presentato il corso accademico presso l’Università dell’Età Libera 2018/2019 tenuto dalla Professoressa Enrica Gardenti e con la quale per l’associazione culturale “Sole Ombra” ha pubblicato un romanzo breve: “La giostra del tempo”.

Non è affatto facile guardarsi allo specchio, soprattutto ora, all’età di 64 anni. Anche se non voglio, l’occhio, critico raffinato, prende il sopravvento per elencare tutto ciò che non corrisponde ai canoni estetici correnti.
In effetti, il naso è storto, le labbra troppo sottili, le sopracciglia due archi asimmetrici, e gli occhiali, indispensabili per guardarsi, rovinano, con la loro forma, l’ovale del viso.
La pelle… devo fare uno sforzo immane per accettarla.
Posso provare a sublimare, ciò che vedo e immaginare una ricamatrice che di notte cuce fili sottili sul mio volto, ed anche i solchi profondi sulla mia fronte, responsabili di una espressione perennemente accigliata, siano  parte di un grande lavoro artistico, ancora da completare; sui capelli, poi, lavora instancabile ogni notte e cambia i fili dell’ordito con fragile seta argentea.
Devo pensare che per ogni ricamo eseguito, c’è un tempo che ho vissuto, un altro giorno è trascorso.
Stanotte, il suo ago si è accanito sulle palpebre ed ha creato una espressione triste. Stanotte, ho vissuto la perdita di Tiziana, amica cara, compagna di scuola, il mio primo amore di adolescente.
Allora non lo sapevo, i grandi ci vedevano insieme mano nella mano e dicevano che eravamo “amiche del cuore”, ma ripensando alle emozioni provate, quando poi la maturità sessuale mi ha portato a cercare corrispondenze nel genere maschile, quello provato per lei a dieci anni, era amore incondizionato, totale, profondo.
Non esisteva cosa, che lei potesse proporre o chiedere, alla quale io non rispondessi con un “si” assoluto.
Il cuore batteva pazzo e mettevo una cura particolare nel vestirmi, se dovevo incontrarla, sorridevo beata, al pensiero di compiacerla.
In primavera, raggiungevamo con le bici i campi delle colline vicine a Badia di Ripoli: la salita dei Moccoli, aveva nel suo nome, tutta la difficoltà che facevamo per percorrerla, con le nostre pesanti biciclette Graziella e poi via del Paradiso, con la sua dolce discesa, a ripagare in qualche modo le fatiche sofferte.
Nei campi di ulivi, raccoglievamo anemoni, tazzette e tulipani, preziosi perché più rari.
Ci sentivamo grandi, per la libertà che quelle passeggiate ci regalavano. Chiacchieravamo di scuola, dei fatti di casa, del nostro grande idolo musicale: Rita Pavone.
A maggio, il nostro giro prendeva altre strade: via Beccari, via del Parlatore, dove ville e villette, esibivano rigogliosi roseti. Armate di forbici e di una capiente borsa, rubavamo le rose che dalle siepi, sporgevano in strada. Quante risate suscitava in noi quell’agire di soppiatto, trasgredendo le regole della buona educazione, e quante fughe con la borsa ben stretta a difesa del nostro bottino se, nonostante le nostre precauzioni, per non essere viste, qualcuno si accorgeva di noi e ci redarguiva aspramente.
Ci piacevano molto i romanzi di avventura, Salgari e Dumas i nostri preferiti, ne parlavamo spesso, ma quando su quel libro non c’era più niente da dire, le avventure di cavalieri e regine, le inventavamo noi. Curiosamente, nessuna delle due voleva il merito di quelle narrazioni fantasiose, attribuivano ai nostri sogni il merito di aver ideato la storia. La narrazione poteva durare un intero pomeriggio per poi riprendere il giorno seguente, con un secondo episodio, sempre sognato, nella notte appena trascorsa.
Per moltissimo tempo siamo state unite saldamente, poi come spesso accade, la vita vissuta prende pieghe inimmaginabili e la sua improvvisa malattia ha creato una voragine di anni silenziosi.
Poi un pomeriggio, la telefonata: la sua voce argentina che chiedeva di incontrarci. Non un accenno al passato, non una spiegazione ma solo un semplice invito per l’indomani, ed io ho detto un sì. assoluto.
Il corpo notevolmente appesantito, il camminare incerto, il volto arrotondato con le linee degli zigomi e del mento quasi scomparsi, mi ricordavano i lineamenti di una bambola di pezza. Gli occhi e il sorriso, quelli che ho amato.
La malattia psichica e il suo trattamento avevano lasciato i segni del loro passaggio. Tiziana era la bambina di quaranta anni prima: nei comportamenti, nelle affermazioni, nelle scelte, nessuna corrispondenza con l’età anagrafica.
Intatto l’affetto per me; lo manifestava continuamente con telefonate chilometriche, dove mi faceva partecipe delle ordinate, semplici, ripetitive giornate che trascorreva. Mi riempiva di piccoli doni, quando ci incontravamo per passeggiare e mi tempestava di messaggi pieni di cuoricini.
Plasmare, come da un pane di creta, una nuova forma di amicizia, non è stato facile ma il sentimento per lei era talmente forte, che alla fine è stato possibile realizzare un nuovo manufatto.
Ricordi felici di questi ultimi anni? Tantissimi, uno su tutti la sua prima mostra di pittura, dove era giunta dopo aver ceduto alle mie lusinghe, affinché ricominciasse a dipingere.
Ricordo la sua espressione beata con l’incredulità negli occhi, l’emozione visibile in un leggero tremolio delle mani, la bocca atteggiata in un sorriso che non aveva mai fine.
I suoi quadri erano la parte più intima e inconscia del suo mondo: quello dei sentimenti e dell’emotività, l’uso dei colori, forti e vivaci, soprattutto il verde a indicare una tranquillità ritrovata, ma steso a spatola sulla tela, esprimeva anche forza e ribellione.
L’ho cercata il pomeriggio del 31 dicembre, mi sembrava strano non aver ricevuto nessun messaggio augurale. Ho chiamato più volte senza ottenere risposta. L’ansia ha cominciato a divorarmi, ma ho cercato di placarla; mi consolavo e illudevo con  una spiegazione, legata al suo silenzio, sicuramente banale. Ho scritto sui social alle poche persone che avevano contatti con lei, per avere notizie, ma la risposta è arrivata solo il mattino successivo: è morta, sola, nel momento in cui la cercavo.
Amica mia, il filo di canapa forte, come una gomena, che ci univa ha reso possibile un ultimo momento insieme: io ti chiamavo con inquietudine per salutarti, e tu stavi partendo.
Rimpianti? Tanti, per tutte le cose che avremmo ancora potuto fare, questo il più pesante da sopportare.
Ti ho porto il mio inutile saluto in una fredda camera mortuaria e lì, ho pianto per noi.
Composta in un tetro abito nero, che non avevi nell’armadio, avvolta da una musica ambient mai ascoltata, benedetta da una cerimonia religiosa in cui non credevi, i tuoi familiari avevano forgiato la Tiziana che volevano, quella che non sei mai stata.
Ti ho accarezzato le mani, l’unica cosa che non hanno potuto cambiare: paffutelle, lisce, curate con le unghie coloratissime. Mani morbide, fatte per sfiorare la vita, non per combatterla.
Tra le firme delle persone che hanno porto le condoglianze, una recava accanto una piccola frase: “Vola via Tiziana!”, in quella poche parole ti ho ritrovata. Sono ancora davanti allo specchio, ho tolto gli occhiali per non vedere ciò che la ricamatrice sta cucendo intorno agli occhi, forse si è punta un dito, qualcosa di caldo e bagnato, scivola via.

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