Yami (conosciuta anche come Yami Yume) è una scrittrice emergente siciliana. Ha esordito con il romanzo fantasy/horror Immagina (Sangel Edizioni 2011 – 2013; Libro Aperto International Publishing 2014 – inizio 2016), riscuotendo un ottimo successo di pubblico e critica e si è aggiudicata diversi riconoscimenti, tra cui la Segnalazione di Merito alla “V Edizione Premio Letterario Massa, città fiabesca di mare e di marmo” nel 2011, la Menzione Speciale al Concorso “Casa Sanremo Writers” nel 2012 e la Segnalazione della giuria per Meriti Letterari alla “XXVII Edizione del Premio Internazionale di Letteratura PHINTIA 2013”. Ha partecipato a numerosi concorsi per racconti, ottenendo la qualificazione e la pubblicazione delle opere in gara in 38 antologie e raccolte di autori vari.

Succesivamente ha pubblicato Black & Noir (2014), una raccolta di 11 racconti fantasy, horror e noir per la Casa Editrice Kimerik , e Il bambino di latte e altre storie (2015), una raccolta di racconti fantasy e favole per ragazzi e adulti pubblicata per meriti letterari dalla Casa editrice Kimerik in seguito alla vittoria conseguita alla X Edizione del Premio Letterario “Granelli di Parole” per la Sezione Favole. Dal 2017 collabora occasionalmente con la Casa Editrice Kimerik  e dal 2019 è entrata a far parte dei collaboratori di “Full D’Assi Magazine”. Nel 2022 si è aggiudicata la vittoria alla I Edizione del Premio Letterario “Romanzi e Generi – sezione horror” con il romanzo Un canto nell’oscurità, che è stato pubblicato nell’ottobre dello stesso anno da Edizioni Italiane. Immagina e Un canto nell’oscurità sono stati annoverati tra “I 200 libri più belli d’Italia” al “Premio Letterario Tre colori – Inventa un film” di Lenola.

Un estratto dal Capitolo 1

Come al solito, seguendo la catena dei pensieri mi sono estraniato. Soltanto adesso che l’ho spezzata mi rendo conto della sagoma scura che è entrata nel mio campo visivo. Inchiodo bruscamente e mi volto a fissare un’immensa villa dall’aspetto fatiscente, che si erge al centro di una piccola collinetta sul lato destro della strada. Un cancelletto di legno piuttosto malandato si apre su una sassosa stradina che si snoda per circa un centinaio di metri, fino al portone principale. La costruzione sembra molto antica.

È il primo edificio in cui m’imbatto dopo aver macinato centinaia di miglia in questa parte del globo e ho l’impressione che sia anche l’unico. Avrei bisogno di una doccia e di cibo vero. Da quaggiù la casa sembra deserta. Magari è una di quelle abitazioni abbandonate e infestate dai fantasmi. Tuttavia, l’idea di proseguire oltre e rischiare di dover passare un’altra nottata insonne in questo stretto abitacolo è una prospettiva ancor meno allettante.

«Potrei dare un’occhiata» mormoro tra me.

Faccio manovra e imbocco la salita con decisione. Parcheggio il veicolo a pochi metri dai gradini dell’entrata. Scendo, tiro fuori dal portabagagli il logoro borsone grigio in cui sono conservati i miei pochi averi terreni e sulla spalla destra mi carico lo zaino dove tengo il portatile, l’agenda con i miei appunti e gli altri documenti.
Vista da vicino, la villa sembra ancora più imponente. Prima non mi ero accorto del fitto boschetto di pini che parte dall’ala sinistra e pare proseguire sul retro.

Le tende sono tirate, eppure mi sembra di scorgere una luce che filtra dalle camere del primo piano. Che io sappia, i morti non hanno bisogno d’illuminazione. È anche vero che esistono un’infinità di altre creature che potrebbero annidarsi in un luogo del genere, libere di attirare ignari viandanti e farli sparire: non c’è un’anima nel raggio di svariate miglia, nessuno verrebbe a sapere niente. Ma, sinceramente, sono stanco di farmi continui film mentali sui potenziali pericoli che potrei incontrare. J.J. mi direbbe di smetterla di pensare sempre al peggio e di provare a rilassarmi ogni tanto.

Mi avvicino ai battenti in quercia e osservo con curiosità le teste di leone scolpite in altorilievo su ciascuna anta. Ogni felino stringe tra i denti un grosso anello di ferro. Afferro quello di destra e lo batto contro la porta. Poi infilo le mani in tasca e tendo le orecchie per cercare di cogliere eventuali rumori dall’interno della villa.

I chiavistelli scattano all’improvviso, facendomi sobbalzare, e il portone si apre scricchiolando. Prima di varcare la soglia, getto un’occhiata nell’atrio semicircolare. L’interno è illuminato unicamente da candelabri appesi alle pareti. Al centro della sala c’è una grande scalinata dello stesso legno lucido e massiccio del portone ed è coperta da un lungo tappeto di velluto rosso scuro.

La prima rampa termina su un pianerottolo sormontato da quello che sembra un enorme quadro coperto da un drappo nero. Da qui partono altre due rampe che conducono al secondo e al terzo piano, seguendo direzioni opposte: quella di destra procede sul lato ovest della villa, invece andando a sinistra si accede all’ala est.

Mentre osservo questi dettagli, nella mia mente si affaccia una domanda: Chi ha aperto?

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