Un ricordo, una canzone e l’estate che esplode, ogni anno diversa, segnata dalla storia del tempo che passa e non torna più.
Sembra di sentire le parole di Paolo Conte, la voce di Celentano, mentre si legge questo racconto di Sauro Roma, che riporta con attenzione e dovizia di particolari la storia di un paese travolto dalla modernità negli anni del boom economico..
Dove sei azzurro
Nel 1949, l’unico bar ristorante che c’era sulla spiaggia di Volano, era quello di mio padre: una casamatta di legno costruita dai Tedeschi durante la guerra, un deposito munizioni e casermaggio per i soldati che montavano la guardia temendo qualche incursione nemica dall’Adriatico. Il ristorante era gestito oltre che da mio padre, anche dal suo amico Agide e dalle mogli, e in più da mio fratello allora quindicenne, e infine da me di un anno appena. Ognuno aveva un compito: mio padre stava in cucina, essendo stato cuoco in un campo di concentramento a nord di Berlino durante la guerra; il suo amico era addetto al vettovagliamento; le mogli e mio fratello servivano ai tavoli. Il mio compito invece era di farmi la popò addosso, dormire e rompere le palle a mio fratello per farmi tenere in braccio.
Gli unici clienti del ristorante erano i pescatori che rientravano dopo una nottata di pesca, poi c’era qualche vecchio che, dopo le sabbiature sulla spiaggia allora deserta, si fermava per il pranzo spendendo pochissime lire. I turisti quell’anno erano un po’ in ritardo, difatti arrivarono intorno agli anni ’60, quando ormai noi eravamo a Torino da un bel po’ d’anni e il ristorante non esisteva più.
La spiaggia a quei tempi non era una vera spiaggia come la si intende oggi, con alberghi ristoranti, bar, discoteche: Volano era solo un ammasso di sabbia rovente che si estendeva per 6 km dalla foce del Po di Volano, verso sud fino alla attuale base NATO di S. Giuseppe. Era impressionante vedere tanta desolazione, sembrava un deserto con il mare a fianco. Alcuni abitanti dei paesi vicini di Codigoro – Comacchio – Lagosanto e Goro (in tutto un centinaio circa di persone), sotto rudimentali tende ricavate da vecchie lenzuola, facevano merenda con anguria e pane, poi si lasciavano abbrustolire dal sole fino verso le cinque di sera, quindi in bicicletta o in barca facevano ritorno ai rispettivi paesini.
Questo fu il turismo di massa che la spiaggia di Volano ricorda negli anni ’50. Poi qualche temerario iniziò a costruire, nella zona demaniale (tra la spiaggia e la pineta), qualche capanno con assi di legno da ponteggio, lamiere, cartone e, per tetto, rami e sterpaglia. Nel giro di un paio d’anni era nata una specie di baraccopoli estiva; attorno agli anni ’60 una vera e propria città di legno con negozi abusivi, bar abusivi, sale da ballo abusive, ristoranti abusivi e un mare di turisti abusivi. Ricordo che tutta la città era sollevata da terra di almeno mezzo metro, perché si era convinti che così non si prendesse la multa per occupazione di suolo pubblico: una città povera con le caratteristiche di una Venezia, piantata sulla sabbia anziché sull’acqua. La mia famiglia possedeva tre di questi capanni e ci passavamo tutti gli anni il periodo che andava da giugno a settembre. La maggioranza della popolazione di questa città di legno era di donne anziane, mamme e bambini da uno a quindici anni; in minoranza gli uomini che solo in agosto ci raggiungevano per riposarsi o per apportare qualche modifica alle case di legno.
I Comuni di Comacchio e di Codigoro, d’accordo per la prima volta nella storia del delta padano, fecero persino arrivare la luce e l’acqua corrente. Nacquero così i servizi igienici: il gabinetto finalmente non era più una buca nella sabbia, ma una stanzetta aggiunta al capanno, che con il semplice tiro di una rudimentale catena scaricava le cene della sera precedente, in una specie di fogna naturale che attraversava la pineta concimandola a dovere come da manuale del giardinaggio. La luce fu la più grossa novità: tutti i viali sorti fra una fila di capanni e l’altra, erano illuminati e alla sera noi giovani si poteva fare i compiti delle vacanze nelle stanze, gli adulti potevano giocare a carte e le zanzare finalmente potevano vedere in faccia il loro pasto quotidiano.
Poi un giorno mentre il mondo incredulo stava con il fiato sospeso per il primo uomo sulla Luna, e alla radio, Celentano cantava una canzone dell’allora sconosciuto Paolo Conte “…azzurro di pomeriggio é troppo azzurro e lungo per me…” le ruspe di qualche speculatore edilizio rasero al suolo, peggio della bomba atomica, qualcosa come tremila capanni di legno, dieci ristoranti, tre bar e diciotto anni di stupendi ricordi di noi bambini. Questa distruzione totale dovuta, come ripeto, a qualche arruffone di politicante di non so quale corrente, portò all’ammodernamento del lido e, come per incanto nacquero ai bordi della spiaggia i bagni, gli ombrelloni, le sdraio, le docce, tutto a pagamento, anche il sole a pagamento, riducendo le spiagge libere a pochi metri quadrati fra un bagno e l’altro. E poi i windsurf, le moto, le macchine, il Festival dell’Unità, quello dell’Umanità, la Festa dell’Anguilla, quello della Cozza. Tornarono i tedeschi dopo vent’anni ad imporre il loro modo di mangiare e di bere, i Würstel, le salse, la birra, quindi i giochi elettronici americani, le autoradio a tutto volume, i gelati artificiali confezionati l’anno prima, i juke-box di sole canzonette che alla fine dell’estate nessuno ricorderà più, in un inglese con testi banali, tipo “puoi tenerti il cappello mentre facciamo all’amore” mentre noi della vecchia Volano sappiamo ancora che “…azzurro di pomeriggio é troppo azzurro e lungo senza di te…”.