Torna Franco Rizzi, già mio ospite in questo Salotto, con un’altra storia tratta dalla raccolta “99 racconti”. Un’avventura semplice che si svolge in mare, con piccoli eroi e imprevisti di una quasi-quotidianità, con un colpo di scena finale. Anche questo racconto si legge d’un fiato, come il precedente Quando L’Orco incontrò la Tigre. Sarà la forza della verità?
UN MOZZO DI CORAGGIO
Il primo tirocinio in mare, Nino Martini l’aveva fatto su una bettolina, poco più grande di una scialuppa, addetta al trasporto di carbone, dal deposito a terra, alle navi a vapore che attendevano nella rada. Fare il carbonaio era un lavoro faticoso, bisognava spalare carbone tutto il giorno e in pochi minuti ci si ritrovava ricoperti di polverino nero, che si attaccava alla pelle ed era difficile da eliminare. Se il tempo non era troppo freddo, a sera tutti i carbonai si immergevano in mare per lavarsi con pezzi di sapone puzzolenti.
Si presumeva che un marinaio dovesse essere in grado di nuotare e, nei primi giorni d’imbarco, i marinai più anziani avevano gettato Nino in acqua, più volte, senza pietà. Lo ripescavano mentre sputava acqua salata e lo ributtavano in acqua, ma in un paio di giorni imparò a stare a galla. Dopo un mese nuotava come un pesce e riusciva a essere più veloce anche di molti marinai più anziani. Quel primo periodo non era stato difficile, principalmente perché anche gli altri marinai carbonai erano di estrazione contadina come lui. Quindi niente problemi con stupidi o feroci scherzi da caserma e, dato che non navigavano, neppure con il mal di mare, di cui tutti favoleggiavano che attanagliasse le nuove reclute. A quel tempo Nino dormiva a terra, in una caserma dell’Arsenale e, nonostante ci fosse la guerra con la Turchia, il tempo per la libera uscita era ancora concesso con una certa larghezza. Avrebbe voluto andare anche lui a visitare una casa di tolleranza, ma denaro per farlo non ne aveva e neppure l’età. Però a Taranto, diversamente dal suo paese, nei pomeriggi di libera uscita, nella zona del porto, di ragazze se ne vedevano parecchie. Molte erano figlie di pescatori che passavano il tempo in riva al mare, in attesa del ritorno serale delle barche, quando anche loro avrebbero dovuto aiutare a trasportare il pesce al mercato. Si lasciavano avvicinare dai marinai e parlavano con loro senza ritrosia. I militari più intraprendenti le portavano a sedersi con loro sugli scogli, sufficientemente lontani dalle case, in modo da poter allungare le mani senza essere visti.
Nino imparò ben presto che anche le ragazze allungavano volentieri le mani nei pantaloni dei maschi, quando erano sicure di non essere viste, specie se i ragazzi avevano muscoli sodi ed erano puliti. Gradualmente, quindi, imparò a prendersi cura del proprio corpo e anche a dialogare senza timidezza con le ragazze molto meglio di quanto facessero gli altri carbonai, che adesso lo guardavano con una certa invidia.
Era decisamente più sveglio degli altri spalatori di carbone e, dopo alcuni mesi di quel mediocre lavoro, era diventato il migliore di tutti loro. Forse per questo la marina decise di farne un marinaio: venne quindi imbarcato come mozzo a bordo di un piccolo caccia torpediniere che scortava le navi da trasporto da Napoli a Tripoli.
La vita a bordo di una nave, così diversa dalla vita dei carbonai, su e giù dalla bettolina, gli era subito piaciuta. Era scandita dai fischi del nostromo e dalle urla degli ufficiali, ma era bella. Si dormiva dondolati in un’amaca e ci si svegliava all’alba, si doveva faticare parecchio, ma i pasti erano buoni e abbondanti. Una certa difficoltà era rappresentata dai termini marinareschi che tutti usavano e che mettevano in difficoltà le reclute. Nino però era intelligente e riusciva a mandare rapidamente a memoria la maggior parte di quei nomi strani.
La vita a bordo di una nave di scorta, in tempo di guerra, non era però del tutto semplice e tranquilla. Quando, giunti al largo, affiancavano un convoglio da scortare, improvvisamente il clima a bordo cambiava. Gli ufficiali assumevano un comportamento più duro e severo di quand’erano in porto, i sotto ufficiali diventavano spesso rabbiosi e i marinai invece silenziosi. I comandi si facevano secchi e imperiosi: era meglio capirli al volo ed eseguirli senza parlare.
Con un binocolo, oppure con un cannocchiale, gli ufficiali, con gli occhi aggrottati, scrutavano il mare. La tensione, creata dalla paura, diventava palese. Le cannonate dei turchi, ma questo nessuno glielo aveva spiegato, potevano giungere anche da molto lontano, da quella linea d’orizzonte dove una nave nemica quasi non si riusciva ancora a vederla. Tutto dipendeva dalla stazza della nave avversaria e dal calibro dei cannoni che portava a bordo. Loro invece erano una nave piccola, munita di cannoni di piccolo calibro e, per rispondere al fuoco, avrebbero dovuto arrivare molto più vicino al nemico. Ma neanche questo gli era stato insegnato.
Nino era stato comandato alla sala caldaie, in aiuto ai caporali di macchina, confinato nella pancia della nave. Quando il capitano ordinava “tutta forza”, il direttore di macchina ringhiava i comandi, che venivano ripetuti dai caporali, e le caldaie venivano spinte al massimo.
La ciminiera eruttava dense volute di fumo nero, mentre il piccolo caccia cominciava a rollare e beccheggiare rapido sulle onde. Di solito durante quella andatura la rotta veniva modificata di continuo e la nave avanzava zigzagando sul fianco del convoglio che stava scortando.
La prima traversata fatta da Nino era stata piuttosto complicata per il mal di mare, ma già al secondo viaggio questo inconveniente era scomparso.
Quando poi arrivavano nel golfo di Tripoli, finalmente tutto finiva: la tensione si scioglieva e la navigazione tornava a essere tranquilla, ma non la vita dei mozzi.
La tensione creata dalla paura, per dissolversi, doveva trovare sfogo in chi comandava attraverso il tormento sui sottoposti. Il capitano s’infuriava con il nostromo, il direttore di macchina strapazzava i caporali e così all’ingiù, fino a raggiungere i mozzi.
Che fossero momenti di tensione o periodi normali, comunque i mozzi dovevano ripulire il ponte a colpi di spazzola e far brillare gli ottoni in attesa dell’immancabile ispezione. Ma anche le caldaie e le condotte dei fumi dovevano essere ripulite molto spesso. Il carbone era di pessima qualità e rilasciava una quantità enorme di depositi che dovevano essere rimossi. Il polverino nero si depositava in tutti gli angoli possibili della nave, che necessitavano di una continua pulizia. Lavorare sul ponte era comunque molto meglio che lavorare in sala macchine. Quando era comandato in coperta, Nino respirava a pieni polmoni l’aria salmastra mentre, in ginocchio, spingeva con forza la spazzola dalle setole metalliche, su e giù sul pagliolato di legno del ponte.
Di quando in quando rialzava lo sguardo sui cannoni che, anche per quel viaggio, non avevano sparato. Pensava con rammarico che poi, anche se avessero sparato, lui non l’avrebbe visto, relegato com’era in sala macchine. Come gli sarebbe piaciuto essere anche lui un addetto ai cannoni, guardare il mare dalle feritoie, vedere una nave avversaria, sparare e riuscire a colpirla.
L’entusiasmo dei diciotto anni e la voglia d’imparare gli avevano procurato un certo numero di amici. In particolare un caporale aveva iniziato ad insegnagli qualcosa sulla sala macchine e gli aveva spiegato cosa fossero in realtà alcuni strani strumenti.
«Cosa sono quegli orologi?» aveva chiesto Nino, e il caporale si era messo a ridere.
«Sono manometri non orologi!» gli aveva detto e gli aveva insegnato che servivano per tenere sotto controllo la pressione delle caldaie, perché non esplodessero. Gli aveva anche spiegato come fosse necessario lubrificare le parti mobili delle macchine con uno strumento a beccuccio, che a lui aveva fatto tornare alla mente il povero venditore d’olio del suo paese. Col tempo, Nino era diventato amico anche di un marinaio cannoniere che gli aveva fatto visitare una postazione di tiro, con il sedile metallico, le manovelle per l’alzo da allineare con il mirino e le grosse ruote per la rotazione della torretta e il posizionamento della canna. Per l’emozione quella notte non era quasi riuscito a prendere sonno.
I viaggi di scorta continuavano e lui continuava a istruirsi; il giovane cafone partito da un paese del profondo sud si stava trasformando in un vero marinaio. Aveva imparato che il mare grosso era una benedizione, perché rendeva molto più difficile colpire un bersaglio piccolo e mobile, quel che loro erano per gli incrociatori nemici.
Ogni tanto il caccia tornava a Taranto e durante queste soste, quand’era in libera uscita, Nino si recava sempre a corteggiare le ragazze nella zona del porto dei pescatori. Era diventato ancora più robusto e sempre più sicuro di sé. Bello, abbronzato e con un ciuffo di capelli bruni sulla fronte, per molte di loro era ormai quasi irresistibile. Ne frequentava diverse e, con più di una, faceva del sesso.
Di solito era la ragazza che iniziava la scaramuccia amorosa infilandogli una mano sotto alla divisa, a quel punto lui le rovesciava in alto la gonna e la prendeva con decisione e poi, prima di fare un qualche guaio, le eiaculava sul ventre, anche se molte ragazze lo stringevano forte, sperando che il guaio avvenisse e che poi lui lo riparasse.
Nino si era fatto però anche qualche nemico: in particolare il secondo nostromo, un tipo rancoroso verso tutto e tutti e che mal sopportava di vederlo sempre allegro e anche ben voluto. Più volte, quando Nino terminava di spazzolare e sciacquare la tolda, lui volutamente l’attraversava con le scarpe da lavoro sporche, lasciando delle orme che il giovane era costretto a ripulire. Le prime volte Nino non aveva reagito, sapendo bene come andassero le cose e, senza dir nulla, era tornato a pulire. L’uomo era grosso e robusto e con il passare del tempo si intestardiva sempre più in quello stupido sopruso. Una sera, mentre erano in porto a Tripoli in attesa del viaggio di ritorno, il solito episodio si era ripetuto. Nino si era dovuto di nuovo inginocchiare e, sbuffando, era stato costretto a ripulire le impronte lasciate dal secondo nostromo. Questi però gli era arrivato, inatteso, alle spalle e l‘aveva spinto a terra, poi l’aveva pesantemente minacciato.
«Quando pulisci non devi fiatare! La prossima volta che ti sento sbuffare la tua spazzola te la infilo nel culo!».
Nino si era girato e rialzato di scatto, rosso di collera e di vergogna, attorno a loro alcuni marinai assistevano in silenzio. I superiori non possono essere insultati né tanto meno colpiti e Nino era rimasto immobile, ma lo scontro era stato solamente rimandato.
La mattina dopo il mare era calmo e il cacciatorpediniere aveva iniziato la scorta al fianco di alcune navi di ritorno verso l’Italia. Il cielo era sgombro di nuvole e la visibilità molto buona. Il capitano aveva deciso la navigazione a mezza forza, questo significava che i mozzi non servivano d’aiuto in sala macchine. Nino, che dopo lo scontro con il nostromo non ci aveva dormito dalla rabbia, era risalito dalla sala macchine e attendeva in un angolo della tolda, appoggiato al corrimano tenendo stretta in pugno la spazzola, anche se in quel momento non gli serviva.
La spazzola era di legno, con le estremità appuntite e aveva setole di ferro.
Anche il secondo nostromo sapeva che lo scontro era stato solo rimandato e, dopo aver salito diverse scalette, era arrivato su quel ponte. I marinai di guardia scrutavano l’orizzonte attenti e nessuno guardava la tolda, che vibrava dolcemente sotto la spinta delle eliche a mezza forza. Il nostromo, individuata la sua vittima, si era avvicinato guardando Nino con aria minacciosa, poi aveva sputato il grumo di saliva e tabacco che teneva in bocca, infine indicando quel rivoltante schizzo di saliva, aveva sibilato: «Pulisci subito brutto cafone!».
Era alto, grosso e robusto, ma forse proprio per questo era un po’ troppo sicuro di sé: non aveva minimamente sospettato che quel suo giovane avversario usasse il cervello e che, non certo per combinazione, stesse già impugnando la spazzola. Nino si chinò in avanti e gliela piantò nello stomaco. Preso alla sprovvista, l’altro si piegò con un ghigno di dolore, ma Nino non intendeva dargli tregua. Sollevò ancora una volta il pugno, armato di spazzola, e lo colpì alla testa e sulle spalle. Per un po’ continuarono a lottare grugnendo, mentre anche il nostromo allungava pugni pesanti come magli. Nino continuò a colpirlo, ad occhi ben aperti, in silenzio, evitando le grosse braccia dell’altro che cercavano disperatamente di ghermirlo.
Mise termine alla loro lotta la marina militare turca: un incrociatore, che forse stava attendendo proprio il loro convoglio, era improvvisamente comparso all’orizzonte.
Anche se abbastanza in difficoltà, perché dotata di navi piuttosto vecchie e poco veloci, la marina turca dava sempre del filo da torcere alle navi italiane.
Le prime cannonate si inabissarono vicino alla poppa del cacciatorpediniere italiano sollevando fontane d’acqua, ma subito dopo due cannonate pesanti come due colpi di maglio, lo raggiunsero a poppa in rapida successione facendolo sbandare bruscamente. I comandi del timone erano stati danneggiati e da una grossa falla, l’acqua di mare aveva iniziato a entrare liberamente, ormai senza timone la nave era diventata ingovernabile.
Il direttore di macchina si era precipitato a poppa per rendersi conto dei danni. Lo squarcio nelle lamiere era ampio e si trovava in una brutta posizione difficile da raggiungere, i rimandi meccanici del timone, colpiti dalla cannonata, penzolavano miseramente, non c’era nessuna paratia stagna che separasse quel punto dalla sala macchine: la nave era condannato.
In coperta intanto fervevano altre attività: il capitano aveva dato ordine di rispondere al fuoco, pur sapendo che i suoi cannoni non avevano una gittata che permettesse di raggiungere l’incrociatore turco. Inoltre la nave era senza timone e la rotazione delle torrette di prua non era sufficiente per arrivare almeno a inquadrare il bersaglio. Vennero sparate due cannonate solo per l’onore, ma i proiettili si persero in mare, mentre lo scafo del cacciatorpediniere vibrava sotto l’improvvisa brutale scossa del rinculo. Il direttore di macchina intanto aveva fatto subito mettere in funzione alcune pompe a mano e in sala macchine anche quella a vapore.
La lotta sul ponte tra il secondo nostromo e il mozzo era bruscamente cessata. Nino non aveva mai sentito i cannoni sparare e ne provò un forte brivido, gettò la spazzola che ancora impugnava e si precipitò a poppa, obbedendo ai fischi di comando che riempivano l’aria.
Poco dopo ansimava, al fianco di altri marinai, sulle lunghe leve delle pompe a mano. Sul ponte di comando le comunicazioni con le altre navi del convoglio si facevano frenetiche.
Le navi italiane avevano intanto iniziato a reagire all’attacco. L’incrociatore turco era più lento, perché le sue caldaie erano più vecchie e obsolete, quindi le navi italiane, anche se più piccole, avevano cominciato a correre a tutta forza incontro all’avversario, aprendosi a ventaglio, come cani all’inseguimento di una volpe.
Era una strategia vincente e, dopo qualche altra cannonata, i Turchi invertirono la rotta, mentre anche gli inseguitori ritennero opportuno abbandonare quella pericolosa partita.
A bordo del cacciatorpediniere colpito, il capitano cercava di salvare la nave, ormai condannata. Inesorabilmente il livello dell’acqua saliva in sala macchine, la nave era sempre più sbandata verso dritta, quando l’acqua fosse arrivata a lambire le camere di combustione, le caldaie si sarebbero spente e anche la pompa a vapore avrebbe cessato di funzionare. I fuochisti cominciavano a temere di essere inghiottiti dal mare se la nave, già sbandata, avesse perso d’improvviso l’assetto di precario equilibrio che ancora manteneva e perciò bestemmiavano e imprecavano contro i caporali, che ancora non davano l’ordine di evacuare il locale. Sui ponti gli ufficiali di coperta avevano ricevuto l’ordine di calare le zattere di salvataggio, senza però ancora staccarle dai cavi d’ancoraggio. Quelle di sinistra penzolavano sul fianco della nave, mentre quelle di dritta venivano lentamente trascinate sott’acqua. Nel locale macchine i marinai avevano ormai l’acqua al petto e non riuscivano più a reggersi in piedi. Due giovani guardiamarina urlavano ordini, ma era chiaro che anche loro erano spaventati.
Il direttore di macchina, dopo essere corso avanti e indietro più volte, quando vide le pompe ormai sott’acqua diede l’ordine di evacuare il locale. Strisciando sui piani della nave ormai molto inclinati, anche Nino, dopo aver manovrato le pompe fino all’ultimo, riemerse sul ponte principale.
I marinai presenti sui diversi ponti avevano tutti indossato dei giubbotti di salvataggio, la nave era inclinata in modo pauroso e nessuno riusciva più a reggersi in piedi. Una delle navi da trasporto che loro scortavano si era messe in panne e aveva calato in acqua alcune scialuppe che si stavano avvicinando. Il capitano doveva aver dato finalmente l’ordine di abbandonare la nave, perché attorno ai cavi che trattenevano le zattere di salvataggio, si era scatenato un forsennato lavoro per liberarle e farle scivolare in mare. Molti marinai si arrampicavano fino al corrimano di sinistra, li scavalcavano e cercavano di scendere lungo la murata della nave fino a quando cadevano o, più o meno malamente, cercavano di tuffarsi. Alcuni urtavano delle sporgenze metalliche e urlavano di dolore mentre precipitavano in mare, dove lasciavano delle scie di sangue. Molti di questi scomparivano sott’acqua.
Nino si guardava attorno indeciso su cosa fare, non aveva un giubbotto di salvataggio e si teneva stretto al portello, da dove era emerso per non rotolare sul ponte sempre più inclinato e finire in acqua. In realtà scivolare verso dritta e gettarsi in mare da quella parte gli sembrava più semplice, ma nessuno lo faceva. Evidentemente tutti paventavano il momento in cui la nave si fosse rovesciata, trascinando sott’acqua gli eventuali naufraghi che si fossero trovati da quel lato. Forse era una questione di tempo: facendolo subito magari ci si poteva ancora allontanare. L’acqua che premeva all’interno della nave trovò un improvviso passaggio verso prua, una nuova massa liquida si spostò, facendole fare ancora un brusco movimento verso dritta. Uno dei marinai perse il sostegno a cui si teneva e precipitò a capofitto verso il portello cui era aggrappato Nino. Vi urtò contro con la testa e perse i sensi. Nino non pensò oltre, afferrò il marinaio per la vita e si scagliò lui stesso in avanti. Scivolarono entrambi sul ponte che aveva ormai il lato di dritta sott’acqua e finirono in mare con violenza, ma dopo poco il giubbotto di salvataggio riportò a galla entrambi. Nino cominciò a nuotare con foga, con tutte le sue forze, per allontanarsi dalla nave. Trascinava disperatamente il compagno svenuto, che galleggiava grazie al salvagente. Sulla nuca sentiva come un fiato di morte che lo lambiva.
Era una gara tra lui e il mostro che aveva alle spalle. Si sentiva il cuore scoppiare, ma voleva a tutti i costi vincere. Ancora poche bracciate e sarebbe stato in salvo: il mostro non si era ancora rovesciato e non l’avrebbe ghermito. Il cacciatorpediniere aveva cominciato a inabissarsi di prua, dove si concentrava il maggior peso delle lamiere della corazza, la poppa si alzava fuori dall’acqua mostrando lo squarcio delle cannonate che l’avevano condannata. Poi, dopo un ultimo sussulto, anche questa sembrò rassegnarsi e cominciò a scivolare in avanti sempre più velocemente. Nino aveva perso il senso del tempo e dell’orientamento, ma continuava a nuotare, fin quando si sentì trascinare all’indietro da un flusso d’acqua sempre più prepotente.
«Madonna! Madonna!» farfugliava sputando acqua salata, ma intanto non desisteva dallo sforzo di nuotare per non farsi trascinare all’indietro, agitando freneticamente le gambe e le braccia, senza lasciare il compagno sempre privo di sensi.
Il cacciatorpediniere era ormai scomparso e il mare ribolliva nell’imperioso movimento, per riprendersi tutto lo spazio che quel corpo estraneo aveva occupato. L’ultima aria contenuta nelle lamiere dello scafo, mugghiando fuggiva verso l’alto, contribuendo a quel gorgogliare furioso. Poi lo scafo proseguì la sua corsa verso il fondo: il suo volume, tolta la quantità d’aria che aveva contenuto, era una ben misera cosa rispetto alla massa del mare che se ne era impossessato. Adesso l’inabissamento poteva procedere veloce e silenzioso. La nave si era portato con sé una buona parte di marinai, tra cui il capitano, rimasto intrappolato nel ponte di comando.
Nino si ritrovò a galleggiare tra onde più calme senza capire come vi fosse riuscito, poi lentamente il suo respiro divenne meno affannoso. Le scialuppe della nave da trasporto si stavano finalmente avvicinando. I superstiti furono issati a bordo, uno dopo l’altro. Anche Nino fu ripescato, insieme con il marinaio che aveva salvato.
Lui però sapeva di averla fatta grossa picchiando il nostromo e, mentre rabbrividiva nella ruvida coperta che gli avevano gettato sulle spalle dopo averlo raccolto, si guardava attorno temendo di rivederlo. Poi, mentre si rendeva conto di quanto era accaduto, cominciò a sperare che il mare se lo fosse preso e che la partita si chiudesse in quel modo, ma non riuscì a passare inosservato.
Il marinaio che aveva tratto in salvo era suo vicino di scialuppa e, non appena fu in grado di parlare, cominciò a sbraitare a destra e a manca di essere stato salvato da quel mozzo. La cosa continuò a bordo del cargo che li aveva raccolti, mentre il marinaio veniva curato in infermeria.
«È stato tutto merito di quel Martini, senza di lui sarei morto! Il mozzo è stato veramente coraggioso…».
Gli infermieri riferirono il fatto a un guardiamarina, che interrogò Nino per averne conferma. Lui avrebbe voluto mantenersi in disparte, ma il marinaio continuava a ripetere la sua versione e perciò anche lui dovette confermare che l’episodio era vero.
«Ho nuotato più forte che potevo, signor tenente» aveva spiegato «dovevo allontanarmi dalla nave che affondava, senza farmi trascinare sotto anch’io».
Tutti vennero così a sapere che il mozzo si era gettato in acqua, senza giubbotto di salvataggio, per soccorrere il compagno.
Era un fatto degno di encomio, uno di quelli di cui qualunque marina avrebbe avuto bisogno, per tenere alto il morale dei militari e dei civili.
A Taranto rientrarono circa il sessanta percento di quanti si erano imbarcati. Il direttore di macchina, che si era salvato, fu incaricato di stendere il rapporto sulla perdita della nave e la morte di una cinquantina di uomini, tra marinai e ufficiali, durante il suo inabissamento. L’episodio di salvataggio in questione era quanto di meglio si potesse desiderare per lenire la perdita della nave. Ma si era salvato anche il secondo nostromo, che invece avrebbe voluto mandare sotto processo Nino, che era riuscito a suonargliele di santa ragione. Il direttore fu costretto ad aprire un’indagine. Ma ormai tutti i marinai erano al corrente dell’atto di coraggio del mozzo Martini e molti parteggiavano per lui. In particolare alcuni cannonieri, che l’avevano preso in simpatia e che conoscevano bene i retroscena della disciplina di bordo, per cui una sera avevano preso da parte il nostromo e gli avevano fatto sapere il loro pensiero.
“Forse il nostromo si era sbagliato, forse era scivolato sul ponte bagnato e si era fatto male da solo. In caso contrario una notte, a meno di smettere di dormire e di restare sempre sveglio e vigile, avrebbe dovuto aspettarsi una coltellata. Era meglio ringraziare la Madonna che tutto fosse finito bene e che, dopo avere visto da vicino la tempesta, fosse tornato il sereno”.
Il nostromo ritrattò, ma era chiaro che l’aveva fatto perché era stato minacciato. Entrambi gli episodi scomparvero dal rapporto del direttore, ma i colpevoli delle minacce, e anche Nino, non sarebbero restati impuniti.
Dopo l’affondamento del cacciatorpediniere, i superstiti avrebbero dovuto essere comunque trasferiti e assegnati ad altre unità. Il nostromo sarebbe stato mandato a La Spezia in attesa di un nuovo imbarco, mentre quei cannonieri così combattivi sarebbero stati subito imbarcati su un’altra nave, destinata al mare Egeo, dove i Turchi erano molto attivi. Anche il mozzo, ormai considerato esperto, sarebbe stato imbarcato con loro come marinaio semplice, addetto al ponte di combattimento. Nessuno di loro avrebbe goduto di alcun periodo di licenza.